mercoledì 27 maggio 2009

Mafia e non solo a Regalpetra. Gaetano Savatteri risponde a Silvia Iacchetta.


C’è una sottilissima linea di confine tra chi decide di impugnare una pistola per uccidere e chi decide di prendere tra le mani una penna per iniziare a scrivere. Una linea d’ombra che però separa nettamente grandi scrittori, come Leonardo Sciascia, da mafiosi, criminali senza scrupoli. È proprio nella Racalmuto di Sciascia, descritta in tante sue opere con il nome “Regalpetra”, che è vissuto anche Gaetano Savatteri, autore di “I ragazzi di Regalpetra”.

Cosa ne è stato di questi ragazzi diventati mafiosi?
A vent’anni di distanza alcuni di loro si sono pentiti, altri invece sono ancora in galera senza essere diventati collaboratori di giustizia. Io ho voluto incontrarli per capire quali fossero le ragioni che hanno portato a scelte così diametralmente opposte. Da una parte ragazzi che impugnavano una “magnum”, dall’altra ragazzi che facevano parte di associazioni, fondavano un piccolo giornale, una radio, compagnie teatrali. Io volevo narrare proprio questo, raccontare come anche dentro comunità così piccole, dove ci si conosce tutti, le scelte possono essere fortemente contrastanti.

Ed è riuscito, alla fine delle sue interviste, a capire cos’ha portato questi suoi coetanei a scegliere la strada del male?
Non si può dire che sia stato semplice destino. Ognuno ha scelto per sé, per come ha voluto scegliere. Al sud le famiglie hanno sicuramente un peso. Se eri figlio del farmacista, del medico, dell’avvocato, eri qualcuno. Diversamente non eri nessuno. Per questi ultimi la mafia era uno strumento di promozione pubblica, grazie ad essa potevano avere uno “status”. Per tale ragione, per questi ragazzi diventare mafiosi voleva dire diventare qualcuno.

Tali scelte erano comunque condizionate da appartenenze familiari? In altre parole, chi aveva deciso di associarsi alla mafia, apparteneva già a famiglie di stampo mafioso?
No, anzi. C’era, ad esempio, Maurizio Di Gati, che poi sarebbe diventano un capo della “Cosa Nostra” agrigentina, che era figlio di un operaio, di una famiglia numerosa, onesta, che ha sempre lavorato. Nel momento in cui uccidono suo fratello maggiore, lui decide di vendicarsi e da tale vendetta nasce quest’associazione con la mafia. Un altro, Ignazio Gagliardo aveva addirittura due fratelli carabinieri. Nel libro ho cercato anche di smontare la tesi dell’ineluttabilità del destino. Non sempre c’era la vendetta. All’interno delle famiglie di sangue di questi stessi ragazzi, c’erano casi di altri fratelli che, invece, rinunciavamo ad assecondare questa logica della vendetta e del perpetuare la faida.

Lei è andato in carcere per intervistare i suoi “ex” amici. Qual è la storia che l’ha colpita di più?
Quella di Alfredo Sole, in galera da venti anni. Durante l’intervista mi ha detto: “In realtà io vivevo in un piccolo paese e non sapevo niente della vita, non sapevo nemmeno sognare. Quando sono arrivato in galera ho letto, per la prima volta nella mia vita, un libro, “Delitto e Castigo”. Dal quel momento non ho più smesso di studiare. Se io avessi letto allora i libri che ho letto in galera, probabilmente non avrei fatto tutto quello che ho fatto, e che mi ha portato qui con due ergastoli sulle spalle”. Alfredo oggi si sta laureando in filosofia.

Alla luce di questa testimonianza, le chiedo se la cultura possa servire ad arginare il fenomeno mafia…
La storia di Alfredo mi fa dire di sì. Ma poi penso che Racalmuto era il paese di Sciascia, un paese tranquillo, un luogo letterario, dove pensavano ci si potesse salvare dalla violenza, eppure questo non è bastato. Probabilmente quello che è mancato è stato un senso di comunanza, di condivisione di una serie di valori.

L’informazione, invece, che funzione può avere nella lotta contro la mafia?
Io, proprio negli anni Novanta, insieme ai miei amici avevo fondato un piccolo giornale “Malgrado Tutto” e abbiamo cercato di raccontare tutto quello che succedeva. Tutte le testimonianze giornalistiche, di inchiesta e le opere letterarie, sicuramente ci dicono una cosa: forse non possono fermare le barbarie, ma il fatto che le barbarie abbiano una narrazione, conoscano una narrazione, sia al suo interno sia al suo esterno, sicuramente può servire a costruire gli anticorpi perché questa violenza si possa fermare.

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