domenica 25 aprile 2010
Segnaliamo: dalle pagine del settimanale GRANDANGOLO - Giovanni Salvo bacchetta il Presidente della P
LA MIA DOMENICA TRA “IL DOLCE E L’AMARO”
Nella nostra antica storia siciliana, il dolce era inteso come "pane speciale", diverso da quello giornaliero, preparato per cambiare l'alimentazione e per festeggiare il giorno di riposo.
Nel rispetto della tradizione è mia sana abitudine acquistare, la domenica, assieme alla guantiera di cannoli e degli immancabili taralli, anche una copia di Grandangolo per variare una settimana dedicata ai soliti quotidiani.
Consumo, tra le mie consuetudini domenicali, la lettura di questo giornale, tanto che l’inchiostro verde che cromaticamente lo caratterizza, è divenuto per me un piacere molto simile a quello provocato dalla vista del rosso che rimarca i giorni festivi sul calendario.
Devo ammettere di essermi affezionato molto alle riflessioni del mio “dies Domini”.
La mia dolce domenica è dunque scandita dall’amara curiosità “intellettuale” di venire a conoscenza di approfondimenti, su fatti e misfatti, che sempre di più rendono l’idea sin dove è in grado di spingersi la nostra società.
La parola mafia, di cui si ciba questo giornale, anche quando non viene pronunciata rischia di assumere un peso maggiore, specialmente se estesa alla condotta che riguarda i nostri “politicanti”; ci irritata, ci crea disagio e principalmente ci lascia con la smania addosso.
Lo dimostra il linguaggio, che si adatta perfettamente ad alcuni comportamenti molto vicini a quello dei famosi pizzini: “U sapemu iu e tu”.
E questa non è solo una storia agrigentina.
Mafia intesa come pizzo, arroganza, privilegio, favore, candidatura, incarico, consulenza e con un fine unico ad una buona fetta di nostri “politichini” e cioè quello del facile guadagno, legato al bisogno e alla voglia di non andare a lavoro.
In fondo oggi questa è la mafia e questa è la politica.
Nella vita c'è il dolce e c'è l'amaro e ciò è anche la prima cosa che apprende un qualsiasi mafioso quando inizia a delinquere, come ampiamente rappresentato nel film di Andrea Porporati, “il dolce e l’amaro”, nel cui cast ha preso parte il bravo attore, di chiare origini racalmutesi, Luigi Lo Cascio.
La filmografia sulla mafia, specialmente quella di Sciascia , sembra averci detto già tutto o forse non è davvero così?
Eravamo fermi ai cannoli e alle condanne dolci da assaporare con gusto del senatore dei senatori agrigentini, anche se non si è trattato di un film, bensì della pura realtà.
Ma da oggi assieme al dolce e all’amaro c’è anche il salato dello “SFINCIONE” che il senatore palermitano Dell’Utri ha preferito gustarsi al posto di commentare gli 11 anni richiesti per concorso esterno in associazione mafiosa, dal procuratore Gatto a conclusione della sua requisitoria.
Il procuratore “può dire quello che vuole” a dichiarato il senatore Marcello, preferendo lo sfincione alle parole del giudice che lo vorrebbe in prigione.
A ciascuno il suo, a chi il cannolo e a chi lo sfincione, mentre a noi cittadini non resta che deliziarci della sfiducia che nutriamo sempre di più nei confronti delle istituzioni e nello stato.
E secondo quella che è una tipica reazione civile “a ciascuno il suo” ci tocca scrutare e dare inizio ad una serie di indagini personali volte al ragionamento, correndo anche il pericolo di essere accusati di invidia nei confronti del potere .
Certo se il compito di fare i conti in tasca ai nostri “politichetti” fosse assolto in pieno dallo stato, noi non rischieremmo di venire appellati come imbecilli quando parliamo troppo dei loro tornaconti.
Ed è spesso proprio cogliendo nei comportamenti le incoerenze delle cariche istituzionali che noi cittadini possiamo, a “porte aperte”, capire di che male stiamo morendo.
Ragionando, secondo un lucido resoconto, sul potere, sulla giustizia e sulla passione, per dirla seppur indegnamente con il giornalista Enrico Mentana, continuiamo a scrivere e riflettere per semplice “passionaccia” per conoscere le cose che andrebbero cambiate, per cercare di spiegarne le contraddizioni.
Anche se molto spesso non conta tanto quello che si scrive ma è più significativo il silenzio che ne segue.
E a proposito di silenzi, mi ha interessato molto la pregevole e risonante intervista fatta al Presidente Eugenio D’Orsi, apparsa sullo scorso numero di Grandangolo.
Mi hanno colpito tanto le risposte date quanto quelle non date.
Oggi il Presidente della provincia di Agrigento si dichiara un uomo solo, mentre pochi pochi giorni fa ci aveva detto di godere della solidarietà di tutti quelli attorno alla sua tenda.
A prova di ciò sullo schermo antistante il suo “accampamento” scorrevano le immagini dei big politici agrigentini pro aeroporto, da Alfano a Cimino e chi ne ha più ne metta.
Ha anche ammesso, in più occasioni, l’interessamento della parrocchia opposta, ringraziando il senatore Adragna che gli sarebbe stato vicino.
Dunque una copertura politica a 360 gradi; ma allora perché D’Orsi si sente solo?
Per dare un po’ di colore a questa mia riflesione, la voglio subito buttare in letteratura con una frase di Shakespeare: “sentirsi solo in mezzo a tanta gente, questa è la vera solitudine”.
Ci sentiamo soli anche noi cittadini però alla non risposta rispetto alla domanda indirizzata, al Presidente della Provincia regionale di Agrigento, con “franchezza” dal nostro Diego Romeo sulle delegittimanti e sistematiche accuse di concorso esterno in associazione mafiosa rivolte, oramai troppo di frequente , ai presidenti di Regione passati e presenti.
Il presidente D’Orsi passando dalla sua vecchia esperienza di amministratore di un comune nevralgico come Palma di Montechiaro, che ha paragonato ad Agrigento in termini del mal affare, ha parlato di “una politica fine a se stessa” , di “una guerra tra poveri” che riguarderebbe il Ministro Alfano e il Presidente Lombardo, che non aiuterebbe la Sicilia
Una guerra tra poveri? poveri noi!
Forse nella veste di ex professore ha anche dichiarato di aver pensato che l’unico modo per sconfiggere un sistema mafioso fosse il denunciare, iniziando a sdradicare l’omertà attraverso la scuola, ma poi avendo capito “l’enormità del problema” non si è sentito più utile nel ruolo di insegnante, si è dato alla politica.
Ma che ci azzecca tutto ciò con la domanda iniziale del nostro buon Romeo?
Forse il Presidente non è riuscito a contrastare il problema del silenzio manco in tale veste, visto come ha eluso la domanda del suo intervistatore, sottraendosi ad ogni minimo commento.
Forse anche questa è una storia tutta siciliana, una “storia semplice”, serve a confermare che "L' italiano non è l' italiano: bensì il ragionare" .
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