Laici e cattolici. Destra e sinistra. Bambini e adulti. Uomini e donne. Si incontrano quando è la festa che parla.
Si aspetta un anno per riviverla. Aspettano i residenti e i tanti che non risiedono più a Racalmuto.
Ma perché è così importante la festa di lu munti?
Sicuramente per la devozione alla Madonna. Vergine Regina Patrona di Racalmuto.
Ma c’è qualcosa in più della venerazione?
La festa cade nella seconda settimana di luglio, mese pieno, dalle lunghe giornate focose.
Il mese muove i racalmutesi: preparativi per la festa, abiti nuovi per tutti, lunghe passeggiate per il corso fino a tarda notte. Il gelato o una bella birra fresca nei tavolini dei bar.
Ma c’è qualcos’altro?
Con la festa comincia la stagiuni. Dopo si va in campagna. Si va in ferie. La festa ricarica e rianima.
Con la festa che ritorna puntuale ogni anno si rafforza la nostra appartenenza alla Beddamatri di lu Munti, alla festa, alla nostra calda e meravigliosa terra, al nostro tanto amato paese.
La festa è festa grande, perché in tre giorni esplode Racalmuto, esplode l’orgoglio racalmutese.
Tanti racalmutesi hanno scritto sulla nostra grande festa.
In questa piacevolissima trascrizione riporterò alcune parti delle migliaia di pagine scritte da racalmutesi, con passione e minuzia, mettendo in risalto l’attaccamento che c’è a questa festa granni .
Leggendo e scrivendo questi testi accresce il mio amore per il paese.
Più si scava nel passato e più forte è la voglia di andare avanti, in un paese che perde, giorno dopo giorno, i pezzi della sua memoria.
Fiesta, rossa fiesta, urlante grappolo di gioia. Leonardo Sciascia paragona la suggestiva kermesse di Racalmuto alla fiesta di Pamplona che Hemingway descrive nell’omonimo romanzo. E, davvero,, Racalmuto somiglia nei tre giorni di festa, alla città spagnola. Pampilonia, nel dialetto dei regalpetresi, vuol dire confusione infernale chiasso panico smisurata allegria. Una pampilonia di festa che nell’ultima settimana di maggio qui esplode insonne e violenta.
Nel libro ancora fresco di stampa “I ragazzi di Regalpetra” Gaetano Savatteri scrive:
Chi non è regalpetrese non capisce, intravede l’anima del provinciale dietro le mie acrobazie per ritrovarmi ogni anno in piazza per la salve dei ventun colpi di cannone ad apertura dei festeggiamenti. I paesani sono orgogliosi della festa, se ne vantano, a colpo d’occhio calcolano l’afflusso, stilano stime e raffronti, quest’anno più forestieri ci sono, pure palermitani, pure continentali. Fiesta violenta, barocca, colorata, tribale assai …
Ritornare per la festa vuol dire ritrovare volti amici ricordi nel perimetro stretto del corso, scoprire nuove canizie pinguedini figli. Il paese che si può abbracciare con un sguardo disegnato dalle luci delle luminarie, il grido dei torronari, la folla per strada, lo straripamento dei tavolini dei bar, granite di cedro, gelato a pezzo duro, spongato. Dalle poltrone del Circolo Unione guardare il passìo, saltare, baciare, dire, fare. Fare niente. Niente c’è da fare per la festa, se no aspettare. Aspettare i tamburini. Aspettare la processione. Aspettare la banda. Aspettare la salita de cavalli. Aspettare la rissa per la pigliata della bandiera. Aspettare il colpo che annuncia il castello di fuoco, sempre a notte fonda, stanche le gambe, affranti i bambini nel pianto stanco di sonno …
La festa sempre mi è piaciuta. Nella sue esplosioni di euforia, nelle sue notti insonni e giornate sudate, botti rumori zoccoli tamburi. Mi piace quel tanto di passionale e virile che esprime, devozione irriguardosa che mette insieme pugni e preghiere, soldi e bandiere, offerte e promesse. Non manco la rissa della notte del sabato, squadre di ragazze a contendersi il vessillo della madonna issato sul pennone, partono calvi insulti ceffoni, i carabinieri sanno della tradizione, non vale intervenire a rigor di codice penale. La domenica, sconfitti i postumi della nottata, banda musicale e tamburini strepitano dalle otto del mattino, mi ritrovo coi paesani alla scalinata del santuario,: i cavalli fremono, sfagliano nella calca, l’occhio dilatato, scintille dagli zoccoli, spinti a nerbate su per i gradini, fin quando l’animale carico di addobbi e sacchi di frumento, col suo fantino, entrai chiesa per sciogliere il voto di devozione, in un caldo applauso. Mi piace la festa quando svampa, si fa convulsa, ma perfino nelle sue fasi morte, nella placida noia delle ore in cui tutto deve ancora avvenire o è già avvenuto.
La festa è un fuoco di colori, luci, suoni. Leonardo Sciascia così scrive nelle Cronache Scolastiche, nel ’56, quando la festa ricadeva nell’ultima settimana di maggio.
Comincia il mercoledì con una improvvisa grandinata di tamburi, razzi che fischiano nel cielo e la banda municipale che attacca una marcia festosa, a mio ricordo sempre la stessa. Poiché la festa si apre nel pomeriggio, la scuola resta vuota per il turno pomeridiano. Noi maestri firmiamo il registro di presenza e restiamo a chiacchierare in gruppi nelle aule vuote. Dall’indomani, per tutto il resto della settimana, è come se ci fosse una vacanza per i soli alunni, noi a scuola per tutto l’orario. Si presenta con i libri sottobraccio, pulitino nel vestito, i capelli con la riga, qualche sparuto ragazzino di buona famiglia: i bidelli lo scoraggiano subito, il ragazzino se ne ritorna a casa.
Sciascia mostra una certa insofferenza quando è costretto a restare a scuola invece di vivere la festa.
Stiamo a chiacchierare per tre ore al giorno, noi maestri; e fuori c’è la festa, i ragazzi che dovrebbero essere a scuola seguono a grappoli le bande che girano per il paese, stanno intorno alle bancarelle dalle tende bianche dove si vende la ‘cubaita’, un torrone che ci vuole il martello a romperlo, disposto a gradini sulle bancarelle, e le mosche che vi si posano così compatte da formare un nero muschio. Io che sono nato qui, provo una punta di malinconiaa dovermene stare a scuola; mi piace non perdere niente della festa, sedere al circolo e guardare le immagini della festa come dentro un caleidoscopio, il gioco dei colori che continuamente si compone e si dissolve – ora domina il rosso, ora il bianco, poi il verde, l’azzurro; e si ritorna al rosso – proprio come girassi un caleidoscopio. E le voci. E i tamburi. E le mule cariche di grano, le donne a piedi scalzi che portano sulla testa il sacco pieno di grano, i ragazzi che portano grandi candele istoriate. Tutte cose che ho visto ogni anno, da quando son nato; ogni anno mi piace tornare a guardarle, come fossi ancora ragazzo.
La festa dal mese di maggio verrà spostata prima a giugno, poi alla seconda domenica di luglio.
La fiesta finalmente e di tutti, rossa fiesta, urlante grappolo di gioia. Il regalpetrese – scrive Sciascia - che lavora nelle miniere del Belgio o si trova in America ormai da molti anni, sentirà acuta malinconia negli ultimi giorni di maggio, e scrive ai parenti di Regalpetra – prima di morire voglio almeno vedere per l’ultima volta la festa, e fatemi sapere quest’anno com’è andata, e chi ha preso la bandiera.
La festa del Monte piglia fuoco, sbampa la sera di sabato intorno alle dieci cu la pigliata di lu ciliu. Sciascia descrive nelle “Parrocchie di Regalpetra” questi lunghi attimi di tensione:
L’apice della festa è infatti nella conquista della bandiera, c’è una macchina alta cinque metri, in cima porta uno stendardo ricamato in oro, ogni anno diverso, i giovani borgesi in piazza lottano per conquistare lo stendardo. C’è tutto un rituale, non possono lottare per la bandiera che borgesi scapoli ma già fidanzati, entro l’anno dovranno sposare; si formano le fazioni, ciascuna sostiene il suo campione: l’ora va rispettata e il luogo dove la zuffa deve cominciare, armi non si devono portare; ma a pugni e calci quanto si vuole e si può, malcapitato il carabiniere che vedendo sangue si caccia in mezzo, qualcuno arrivato di fresco lo fa, quelli che lo sanno stanno a guardare: chi si mette in mezzo prende, si sa, la parte migliore delle botte. Dura dieci minuti, un quarto d’ora la zuffa; poi si vede sanguinante il campione salire verso la bandiera, scalcia come un mulo contro quelli che vorrebbero tirarlo giù, coglie finalmente lo stendardo mentre sotto la lotta di colpo si placa, un mare che fa bonaccia diventa la folla che nella zuffa ribolliva. L’anno scorso la lotta per la bandiera, trascinandosi risentimenti elettorali, si annunciava cruenta; allora un borgese di rispetto, un anziano, interevenne ai primi colpi, era scapolo, dichiarò che la bandiera la voleva lui. Accadde una cosa mai vista, tutti in tripudiante accordo i giovani borgesi sollevarono l’uomo di rispetto, per età e corpulenza non ce la faceva, lo issarono sudando fino alla bandiera.
Anche Gaetano Savatteri ci prova nel rappresentare con le parole questo momento fulmineo e disordinato:
Provate a raccontare che esiste un luogo dove in nome di una Madonna si accende una sfida, si tendono i muscoli, si serrano i pugni. Provate a descrivere la ressa che, in un sabato sera di luglio, soffoca il centro della piazza, lo sfilare lento dei Ceri, l’accelerazione improvvisa di quello dei Borgesi, fremente di bandiere ricamate d’oro e incastonate di brillanti. E poi tentate di restituire il senso di una vertigine improvvisa, l’accalcarsi scomposto dei corpi, i volti in alto, là verso la cima del torrione di legno dalle forme vagamente barocche dove scalciano i ragazzi, accaniti nel breve, fulmineo e disordinato arrampicarsi verso la bandiera di seta e di raso con l’immagine della Madonna del Monte. Un vessillo da conquistare, da strappare dalle mani degli altri. A forza di urla e, perché no?, di pugni, di gomitate puntute, di infidi calci … Se provate a dire che un luogo così esiste, basta pronunciarne il nome per spegnere ogni incredulità: Racalmuto, provincia di Agrigento, isola di Sicilia.
Dopo la lunga giornata di sabato che si conclude con i fuochi di artificio, che i racalmutesi amano gustare dalla viva piazza Barona, per vedere da vicino, come hanno sempre fatto, con meraviglia e stupore, la forte carica che si sprigiona dalle canne di fuoco, e seguire con un leggero movimento degli occhi la palla esplosiva che allo scoppio illumina tutto il paese. Ma la festa non è finita.
La domenica si presenta con un programma che copre un’intera giornata. Così Nicoletta Marchese in uno dei capitoli della sua tesi di laurea che ha avuto come relatore il grande poeta dialettale Antonino Buttitta scrive con dovizia di particolari la domenica del Monte.
La giornata di domenica è ricca di mistica religiosità. Per tutta la mattinata si vedono per le strade gli ex-voto portati alla Madonna su muli bardati a festa, o a piedi. Tutte le “prummisioni” che durante l’anno si fanno alla Madonna vengono assolte in questo giorno; ogni fedele si reca in chiesa a sciogliere il voto promesso, rispettando l’ordine precedentemente stabilito con il parroco. Generalmente colui che deve sciogliere il voto (in natura o in denaro), nelle prime ore della mattinata invita parenti ed amici a brindare intorno ad una mensa riccamente allestita. Il fedele, quindi, muove dalla soglia di casa seguito dai parenti. E’ d’obbligo attraversare la piazza finoa salira la scalinata e ad entrare in chiesa. Le donne, che portano “li prummisioni” alla Madonna, camminano quasi sempre a piedi scalzi, il sacco del grano, legato con fiocco azzurro, simbolicamente in testa. In passato, il frumento era l’offerta più presiosa, che un popolo contadino poteva offrire alla Madonna; oggi, i fedeli offrono, per lo più, gioelli e denaro. Gli uomini cavalcano muli bardati, preceduti dalla musica attraversano il corso principale. Ogni fedele, arrivato ai piedi della scalinata, recita una breve preghiera e, segnatosi si prepara a salire la lunga gradinata in pietra che porta al santuario. Il fedele a cavallo urla di gioia e di paura, incitandone la salita con la frase “ A…acca! Evviva Maria”…
Da alcuni anni, i giovani a cavallo, la sera del sabato e la sera della domenica, offrono ai tanti spettatori che si accalcano ai piedi della lunga scalinata della Chiesa del Monte, l’acchianata dei cavalli a galoppo. Uno spettacolo meraviglioso, ma che ogni anno trova il dissenso degli organizzatori. Un’iniziativa non da programma. Credo che si dovrebbe regolamentare questo spettacolo che tanto attrae i racalmutesi e i forestieri.
Ma la giornata della domenica vede due momenti molto attesi. La lunga maschiata prima di pranzo, dopo la Santa messa di mezzogiorno. E i fuochi di artificio della notte. Fuochi forti splendenti colorati vari ininterrotti. Uno spettacolo nell’immenso cielo che ci lascia sempre storditi e sbalorditi.
Questa trascrizione è semplicemente un omaggio alla festa e con l’occasione vuole omaggiare quanti nel tempo hanno scritto, nero su bianco, le cose di Racalmuto.
Uno di questi è sicuramente Nicolò Tinebra Martorana che a ventidue anni, mentre ancora studiava medicina all’Università di Napoli, scrisse Racalmuto memorie e tradizioni, stampato per la prima volta nel 1897, ristampato nel 1982 dall’Amministrazione Comunale di Racalmuto per volontà di Carmelo Mulè, allora assessore ai Beni Culturali.
Nicolò Tinebra Martorana a proposito della presa del cilio con una punta di sarcasmo scrive:
Il più robusto spicca un salto, acchiappa la banderuola o, se altri l’ha già carpita, cerca di rapiglierla e la sventola in segno di trionfo, la musica suona clamorosamente da intronare i sordi, il popolo applaude con un mormorio lusinghiero, con la voce e con le mani, il fortunato s’insedia sul cilio con occhi sfavillanti di vigoria e di salute. Ogni qual volta mi avviene di assistervi, guardo quel giovane felice, tutto lucente di velluto, aitante, bruno e qualche volta bello, ardimentoso, vero principe della terra, con un senso di sincero rammarico.
Oh! Perché, dico, perché non torna per te il buon tempo antico, tutto entusiasmo religioso? Allora tu saresti il prediletto della ‘Beddamatri del Monte’ e le mamme ti guarderebbero trasecolare, con l’occhio dell’anima ed i buoni borgesi con somma stima ed ammirazione. Come è forte! Come è valoroso e bello! Direbbero le robuste e rosse giovinette dai procaci fianchi, vaghe in lor costume e tinte vistose, col colmo seno palpitante. E si contenderebbero un tuo sguardo con occhiate lunghe e rubacuori, da cui sempre traluce l’immagine di un bacio ed il fuoco del sangue sicano, e t’avventerebbero un sorriso, o fortunato vincitore, in cui, più che una promessa, sarebbe detto: Vieni, io t’amo!
Ora non t’accompagna che il compiacente mormorio di coloro che trovano ancora un po’ di poesia e di diletto nelle tradizioni ed il brontolio dispettoso dei progressisti!
Al giovane vincitore però incombe il dovere di fare illuminare a proprie spese il cilio, con numerosa quantità di ceri, quando è rientrato nella chiesa della Vergine, e per qualche istante la fama ed il nome di lui vola di uomo in uomo.
Oltre un secolo è passato da quando il giovane Tinebra Martorana intravvede nella presa del cilio una tradizione popolare e non la manifestazione del giovane borgese più ardito. L’evoluzione dei tempi gli da ragione, poiché, oggi, per invogliare i giovani a mantenere viva la tradizione, gli organizzatori riconoscono alcune centinaia di euro a chi prende la bandiera, aiutando così il giovane a sostenere le spese che dovrà affrontare il prossimo anno, nella realizzazione di un nuovo stendardo raffigurante la Madonna del Monte e per un rinfresco da offrire ad amici e parenti prima della partenza del cilio, dall’abitazione del giovane borgese.
Un altro racalmutese che ha scritto sulle cose di Racalmuto è Eugenio Napoleone Messana, nel voluminoso libro Racalmuto nella storia della Sicilia, pubblicato nel giugno del 1969, anno in cui la festa si svolgeva proprio nel mese di giugno.
La tradizione rivive nella festa che ancor oggi ogni anno si celebra la seconda domenica di giugno in onore della Madonna.
Tale solennità dura tre giorni, inizia il venerdì con “lu triumpu”, imponente processione preceduta da una fiaccolata multicolore, che accompagna una riproduzione in carta pesta della Madonna del Monte per le vie principali del paese. Il sabato pomeriggio è occupato dalla sfilata dei ceri. I ceri sono ex voto delle antiche corporazioni dei lavoratori, all’origine immense torce di cera sorrette da legno intarsiato che venivano offerte alla Madonna, oggi le torce sono sostituite da colonne di legno. I ceri che ancora si portano sono tre: quelli de rivenditori d’ olio, quello dei rivenditori di calia (ceci, semi di zucca salati, noccioline abbrustolite) ed il maggiore, quello dei borgesi, chiamato “di li schietti”, perché specificamente dei celibi di questa categoria, imponente per mole e maestà, tanto da essere sorretto da ben 48 portatori … arrivato al centro della piazza “lu ciliu di li schietti” si ferma e il celibato dei borgesi si lancia alla conquista della bandiera a pugni e cazzotti il vincitore viene applaudito dagli astanti e portato in trionfo sul cero per il restante della processione. A lui spetta nella festa ventura le spesa di trasporto del cero e la offerta di una nuova bandiera.
Anticamente il vincitore la sera del sabato doveva buttare la bandiera conquistata in faccia ad una ragazza che entro l’anno doveva sposare. In questi ultimi anni la caratteristica della zuffa per la bandiera tende anche a scomparire, sia per la crisi agricola, sia per il modo diverso come la gioventù nuova vede le cose di chiesa.
La domenica mattina è occupata dalle offerte votive portate al santuario: muli bardati a festa, carichi di frumento, montate dal miracolato, preceduti dalla musica e seguiti dal parentato in abito nuovo attraversano la piazza fino ai piedi della scalinata che conduce alla chiesa. Qua ha luogo un numero folkoristico di rilievo. Il miracolato stringe le gambe sul bardo, tira le redini, i giovani amici e parenti a botte sulle anche aizzano il mulo che sfreccia sulla scalinata e raggiungere la porta della chiesa. A questo punto l’uomo a cavallo urla “evviva maria” e lo ripetono gli accompagnatori.
Il racalmutese ha sempre raccontato scrivendo le cose del suo paese, con particolare riguardo verso la Madonna. Ed è per questo che rinvio in un altro momento la continuazione di questo lavoro di copiatura per fare dono ai tanti che hanno offerto alla memoria le loro fatiche intellettuali. Questa lettura non ha lo scopo di far conoscere storie che sono scritte nel DNA di tutti i racalmutesi, ma soltanto quello di condividere e di promuovere in rete le nostre belle tradizioni, di cui ne siamo orgogliosi.
Testo di Sergio Scimè
Regalpetra Libera Racalmuto
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