domenica 25 settembre 2011

Storie. Giuseppe Sciascia fratello di ...

Ex libris
Giuseppe Sciascia, fratello di ...

di GHERARDO FABRETTI

“Scendo”, aveva risposto al padre che bussava alla porta. Era sua la pistola che teneva sulle ginocchia. Passava i polpastrelli con delicatezza, sul calcio di legno; quelle grinze gli ricordavano il guscio di una tartaruga. La inchiodava con gli occhi quella rivoltella, la minacciava, abbrancandola a pieni palmi e ruotandone il tamburo coi pollici; soffocava quel pezzo di latta, condensando le dita una addosso all'altra. Al momento di sollevarla, però, i polsi gli si fecero di vetro: tutto quel peso lo sconcertava.
 Provò a mettere in bocca la canna, ne soppesò il peso con la lingua, ma il gelo aspro del metallo gli fece venire da vomitare. Soffocò il conato sputando un fiotto violento di lacrime per terra mentre il polso gli sembrò incrinarsi per lo sforzo. Riusciva quasi a figurarseli quei frantumi di carpo che gli spellavano dentro il braccio: la sensazione si era fatta così materiale che aveva mollato a terra il ferro. Un prurito nervoso iniziò allora a grattugiargli il braccio. Sondò prima la natura del movimento fregando lentamente il palmo sulla pelle ma fu inutile: quella leggera scossa gli mormorava sotto la cute, non sopra. Gli scalini crepitavano dabbasso; quel crocchio di suole lo riportò dal pavimento alla porta; respirò forte e l'aria gli foderò lo stomaco di piombo. Con la gola saldata uncinò la pistola e calcò il grilletto. L'indomani il proiettile, un calibro 22, era ancora lì, ficcato nella trave della parete. Non smetteva di guardarlo quel buco; ce l'aveva sempre in testa, anche dopo avergli agganciato un quadretto per nasconderlo. Con gli occhi bruciati da un mal di testa che gli funestava l'anima, guardò fuori dalla finestra la cancellata della zolfara: tra mezz'ora si ricomincia, cominciò a ripetere. Nessuno aveva sentito lo sparo del pomeriggio prima, i passi sulla scala erano solo nella sua testa. Si voltò e uscì dalla stanza. Il Pierrot di Picasso lo guardava insofferente da quella parete incistata di metallo. C'è sempre un po' di imbarazzo, per non dire di colpa, nel raccontare la scomparsa di qualcuno. Se l'immenso potere della letteratura sta nella capacità di creare infinite possibili realtà, il suo grande limite è nell'incapacità di modificare l'unica realtà possibile: il passato. Ciò che nella finzione del possibile è un suicidio mancato, o rimandato, nella realtà dell'accaduto è un suicidio avvenuto, quello di Giuseppe Sciascia, fratello di Leonardo. Era il 1948 quando Giuseppe, direttore venticinquenne della zolfara di Assoro, paesino dell'entroterra ennese, apre il cassetto del comodino dei genitori e tira fuori la rivoltella con cui si toglie la vita. Al fratello Leonardo, lo scrittore ostinato della Sicilia del Novecento, lo dicono subito, mentre si trova a Caltanissetta. Non ne parlerà mai in pubblico, tranne una volta, in una intervista a Domenico Porzio, solo per ribadire la sua incapacità di comprendere appieno il gesto: Forse per ragioni di sconforto, di solitudine. Come il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, anche le lenti di Sciascia, per una sorta di presbiopia dell'anima, indagano i massimi sistemi del mondo ma non riescono a mettere a fuoco ciò che hanno a un palmo. Non era certo facile il mondo di Giuseppe Sciascia, venticinquenne calato nel mondo infernale delle zolfare siciliane, da cui il nonno Leonardo, il “gran lombardo”, era fuggito con sovrumana forza di volontà, imparando, nelle rare ore libere, a leggere, scrivere e far di conto, quanto necessario per posare il piccone del minatore e prendere in mano la penna dell'amministratore. Giuseppe non prenderà mai in mano il piccone ma le sensazioni infernali della miniera arriveranno lo stesso fino a lui; l'isolamento, la giovane età e l'esistenzialismo esasperato di una terra dai nervi sempre tesi faranno forse il resto. Lo scrive nel suo diario, dove scandisce e condensa, in una settimana, una vita che non riconosce come sua: dal lunedì delle delusioni più grandi al mercoledì di una vita vegetativa fino alla domenica del riconoscimento, di un'autodiagnosi che non vuole lasciare scampo a se stessa: Giorno di sconforto, mancanza di fede nel domani. Sono malato. La fuga in carta bollata del nonno forse non era sufficiente per il nipote, che di quel mondo, con ogni probabilità, voleva scansare ogni traccia; a rimuovere i bolli, però, rimane sempre qualche traccia grumata di ceralacca, quell'ereditarietà famigliare scampanata da naturalisti e veristi (tra cui i conterranei Verga, De Roberto e Capuana) e che trova oggi un fondamento scientifico negli studi di psicogenealogia di Anne Ancelin Schützenberger. Supposizioni, teorie, suggestioni; nessuno studio e nessun romanzo farà mai luce sui logoramenti di un uomo il cui ricordo, purtroppo, sopravvive nella memoria collettiva solo perché sostenuto dai venti di un famoso fratello. Il suicidio, nel suo terrificante esito, viene ben presto dimenticato dal mondo quando questo non appartiene a chi – reale o fittizio – ha avuto il dono della fama su carta, nella vita o nella morte.

Gherardo Fabretti è nato e vive a Catania. Collabora con Storie, Leconte e leMAG. Il suo blog è arlequinade, giornalismi assortiti http://arlequinade.wordpress.com

2 commenti:

  1. Indecente:
    il Sciascismo scontato stà raggiungendo momenti di grande cafoneria. Perchè una persona solo per il fatto che è lo scrittore più grande che la Sicilia abbia avuto nel dopoguerra e solo perchè morta, debba subire la profanazione dei suoi momenti di vita più tragici ed intimi? Sciascia non amava parlare di questo fatto, come sanno tutti a Racalmuto, nello stesso modo come non amava parlare del suo io subcosciente, verso il quale, come lui stesso diceva, non provava grande interesse. Avrà avuto anche i suoi motivi!
    Io penso, forse sbagliando, che se Sciascia fosse ancora vivo non gradirebbe che qualcuno si occupi di questo argomento.

    PS tra le altre cose direi "roba di scarso valore narrativo"

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  2. Gentile utente Anonimo, Leonardo Sciascia più volte ha affrontato, seppur indirettamente e inconsciamente, questo terribile evento; ve n'è traccia in molti scritti. L'estensore dell'indecente scritto, così come lei lo definisce, ha solo voluto offrire una alternativa, una via altra, al suicidio, anche se solo su carta, di un giovane ragazzo. E se è innegabile che oggi se ne parli solo perché parente di illustre scrittore (io stesso non ne sarei mai venuto a conoscenza in caso contrario) è pur vero che il soggetto in questione non è qui Leonardo ma Giuseppe; a lui lo scritto è dedicato e su di lui è incentrato. Se di profanazione vogliamo parlare, dovremmo anzitutto rivolgere gli scudi in difesa di Giuseppe, e solo dopo in difesa di Leonardo. Tutto ciò che si desiderava fare era provare a descrivere, con tatto, le sensazioni di un giovane venticinquenne immerso in un mondo a cui non voleva appartenere e non crediamo, in questo di avere recato offesa a nessuno, in primis al povero Giuseppe Sciascia, e solo in secondo luogo a Leonardo.

    Gherardo Fabretti

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