L’insegnamento a Racalmuto e la miseria dei figli di minatori e contadini
di ANTONIO DI GRADO
“Si avvicina l’estate, a scuola mi aggiro tra i banchi per vincere il sonno. I ragazzi scribacchiano stracchi i loro esercizi. Cammino per vincere la colata di sonno che, se siedo, sento mi riempie come uno stampo vuoto. (...) A casa non dormirei di certo, starei a leggere qualche libro, a scrivere un articolo o lettere agli amici. A scuola è diverso. Legato al remo della scuola; battere, battere come in un sogno in cui è l’incubo di una disperta immobilità, della impossibile fuga. Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro. Non nego però che in altri luoghi e in diverse condizioni un po’ di soddisfazione potrei cavarla da questo mestiere d’insegnare. Qui, in un remoto
paese della Sicilia, entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie». Così il maestro elementare Leonardo Sciascia cominciava le sue Cronache scolastiche, apparse nel febbraio del 1955 sulla rivista "Nuovi Argomenti" e confluite, l’anno dopo, nelle Parrocchie di Regalpetra pubblicate da Laterza.
E fin dall’esordio imponeva un segno di accorato pessimismo tanto a quel diario di bordo del mastru di scoli vasci quanto alla sua successiva produzione di scrittore. Ma come nutrire entusiasmo, e magari comporre edificanti fervorini deamicisiani, al cospetto di quei figli di contadini e di minatori, che hanno tanto più bisogno di pane che di aritmetica o geografia? Diplomato alle Magistrali di Caltanissetta, dove ha incrociato e ammirato a rispettosa distanza il professor Vitaliano Brancati, Sciascia varca per la prima volta nel 1949, a ventott’anni, l’uscio dell’aula d’una classe delle elementari di Racalmuto, il suo paese confitto nel cuore assolato e desolato dell’isola, nella Sicilia del latifondo, della zolfara, della mafia. Da quelle Cronache scolastiche ai registri di classe oggi conservati ed esposti nella sede della Fondazione Sciascia a Racalmuto, se non è ingenuo fervore quello che traspare, non è nemmeno rassegnata routine: "uomo di tenace concetto" come l’eretico racalmutese Diego La Matina di cui andava frattanto occupandosi, Sciascia con quei ragazzi affamati e legittimamente demotivati "ci si romperà la testa", come il capitano Bellodi del Giorno della civetta. «I libri -
scrive nel registro - si trovano già in libreria, (...) sono riuscito ad ottenere dalle famiglie quelle mille lire necessarie ad acquistarli. Ho dovuto spendere molta persuasione con i genitori poco disposti e che non hanno poi tutti i torti. Mille lire
sono, per un operaio di questo comune, più di tre giornate di lavoro... Io trovo la lettura in felicissima (...). Il sussidiario, sebbene ben illustrato, non è buon strumento. Mi preoccupa molto, nei ragazzi, l’incapacità a comporre e a riassumere (...) i brevi racconti che leggono e rileggono nel nuovo testo... ho illustrato ai ragazzi il significato e il valore dello sciopero. Evidentemente non capiscono. Ma qualcuno è venuto fuori dicendo che i loro padri dovrebbero scioperare, ma tutti uniti, stante le paghe di miseria che per il loro lavoro ricevono». È di scioperi e di calcio, di cinema e di quel po’ di letteratura che può coinvolgerli, che il maestro parla perciò più volentieri; e i suoi tentativi, i fallimenti, gli scarsi successi annota scrupolosamente: per averne un’idea basta leggere, oggi, il volumetto amorosamente scritto e ben documentato del racalmutese Salvatore Picone, “Tra i banchi di Regalpetra. Leonardo Sciascia e la sua scuola”, con prefazione di Felice Cavallaro. Nell’autunno del ’57 Sciascia lascia la scuola per altri incarichi; ma ormai era uno scrittore, e lo era
proprio in forza di quell’esordio con le Cronache scolastiche inviate a Italo Calvino e successivamente dilatatesi a un intero microcosmo paesano con quelle Parrocchie di Regalpetra che sono il suo primo vero, grande libro. Riprendiamo quelle Cronache: «Io penso - se fossi dentro la cieca miseria, se i miei figli dovessero andare a servizio, se a dieci anni dovessero portare la quartara dell’acqua su per le scale lavare i pavimenti pulire le stalle; se dovessi vederli gracili e tristi, già pieni di rancore; e i miei figli stanno invece a leggere il giornalino, le favole, hanno i giocattoli
meccanici, fanno il bagno, mangiano quando vogliono, hanno il latte il burro la marmellata (...). Sento in me come un nodo di paura. Tutto mi sembra affidato ad un fragile gioco; qualcuno ha scoperto una carta, ed era per mio padre, per me, la buona; la carta che ci voleva. Tutto affidato alla carta che si scopre. Per secoli uomini e donne del mio sangue hanno faticato e sofferto, hanno visto il loro destino specchiarsi nei figli. Uomini del mio sangue furono carusi
nelle zolfare, picconieri, braccianti nelle campagne. Mai per loro la carta buona, sempre il punto basso, come alla leva, sempre il piccone e la zappa, la notte della zolfara o la pioggia sulla schiena. Ad un momento, ecco il punto buono, ecco il capomastro, l’impiegato; e io che non lavoro con le braccia e leggo il mondo attraverso dei libri. Ma è tutto troppo fragile, gente del mio sangue può tornare nella miseria, tornare a vedere nei figli la sofferenza e il rancore. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo, sempre, per tutti, ci sarà questo nodo di paura».
A combattere quell’ingiustizia, come auspicava Bufalino, un esercito di maestri elementari. Che sappiano, come Sciascia fece per tutta la vita, insegnarci a leggere e scrivere. A leggere il mondo e a interpretarlo, a scrivere un futuro diverso.
"LA SICILIA" - MERCOLEDÌ 29 DICEMBRE 2010
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